28 gennaio 2011

NOTIZIE GIURIDICHE

Cassazione: anche se con poche telefonate, si al reato di molestie. Importante è dolo generico del molestatore.

Integra il reato di molestie il comportamento del soggetto che arreca disturbo o molesta una donna con telefonate a sfondo erotico, anche se le telefonate stesse sono poche. La prima Sezione penale della Corte di cassazione ha infatti precisato che nonostante le telefonate effettuate dal molestatore non siano state numerose, il reato di cui all’art. 660 del codice penale si perfeziona lo stesso in quanto è sufficiente il dolo generico dell’agente, inteso come coscienza e volontà di arrecare molestie o disturbo alla persona offesa. Secondo la ricostruzione della vicenda, dopo la condanna al pagamento di 160 euro a titolo di ammenda in primo grado, l’uomo proponeva appello ma trattandosi di sentenza non appellabile ma solo ricorribile ai sensi dell’art. 593 c.p.p. co. 3 (“Sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda”), la Corte d’Appello di Salerno trasmetteva gli atti al Palazzaccio (ex art.568 c.p.p., co. 5, c.p.p.) per il giudizio di legittimità. In questa sede, la difesa, sosteneva tra i tanti motivi, la mancanza dell’elemento soggettivo del reato e il fatto che le chiamate in uscita dal cellulare dell’imputato non fossero “numerose”, come precisava la sentenza di condanna, in quanto solo alcune di esse erano state provate. Investita della questione, la prima sezione penale di Piazza Cavour con la sentenza n. 1838 depositata il 21 gennaio 2011, nel respingere il ricorso dell’imputato-molestatore telefonico in quanto ritenuto infondato, ha spiegato in poche righe che il reato previsto dall’art. 660 del codice penale, “può ben essere integrato da poche telefonate disturbatrici ma concentrate nel tempo, specialmente laddove esse rivelino un contenuto particolarmente odioso, come di certo quelle attribuite all’imputato”. La Corte ha poi concluso precisando che, per potersi configurare l’illecito è inoltre sufficiente “il dolo generico, che risiede nella volontà e nella consapevolezza di arrecare disturbo alla parte offesa: la petulanza e il biasimevole motivo delle telefonate disturbatrici costituiscono elementi che confluiscono in quelli oggettivi della fattispecie, restando irrilevanti gli eventuali motivi personali (cfr. Cass. pen. Sez. 1°, n. 7051 in data 30.04.1998)”

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Cassazione: il datore di lavoro non è esente da responsabilità per i danni causati ai dipendenti dai propri macchinari

Con la sentenza n. 1226 del 18 gennaio 2011 la Corte di Cassazione conferma il coinvolgimento del datore di lavoro nella responsabilità del danno causato a un dipendente dal macchinario usato nello svolgimento delle proprie mansioni. Anche se le apparecchiature sono dotate del marchio di conformità CE è affidata al datore di lavoro la responsabilità di accertarsi se esse siano in possesso di tutti i requisiti di legge relativi alla sicurezza dei dipendenti. E' il caso di un incidente occorso a un lavoratore nel pulire una macchina monoblocco priva di copertura nell'area di riavvolgimento del filo: pur utilizzando il guanto di protezione, la mano dell'operaio si è incastrata nel macchinario, procurando la frattura di un dito. Il Tribunale di Milano aveva quindi condannato il datore di lavoro a una multa di 300 euro per non aver fornito al lavoratore le necessarie istruzioni d'uso e per l'imprudenza di aver messo a disposizione dei dipendenti un macchinario con difetto. La Corte d'Appello aveva poi confermato la decisione, rigettando le argomentazioni di buona fede dell'imputato e di anomalia della macchina in fase di costruzione. Afferma la Suprema Corte: "(...) Il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, non sarebbe sufficiente, per mandare esente da responsabilità il datore di lavoro, che non abbia assolto appieno il suddetto obbligo cautelare neppure che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico, se il processo tecnologico sia cresciuto in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura.". Quanto alla formazione del dipendente, inoltre: "il datore di lavoro ha il preciso dovere non di limitarsi ad assolvere normalmente il compito di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro".

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È una tassa la prestazione pecuniaria da pagare a Consiglio dell’ordine degli avvocati

Con la sentenza n. 1782 depositata il 26 gennaio 2010 le sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno stabilito che la prestazione pecuniaria necessaria per l’iscrizione al Consiglio dell’Ordine degli avvocati è una “tassa” e pertanto tutte le controversie concernenti i contributi da versare al Consiglio dell’Ordine o al Consiglio Nazionale Forense devono essere devolute al giudice tributario. Adite in seguito alla proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c., le Sezioni Unite Civili della Corte di cassazione hanno stabilito che nonostante l’art. 14, d. lgs. n. 382 del 1944 definisca come “contributo” la prestazione dovuta dagli iscritti nell’albo per le spese del funzionamento del Consiglio (Nazionale Forense), questa denominazione è irrilevante per stabilire la natura tributaria della prestazione che è invece una “tassa”. Inoltre l’art. 7, co. 2, dello stesso decreto legislativo n. 382/1944, prevede che “il Consiglio (dell’Ordine) può, entro i limiti strettamente necessari a coprire le spese dell’ordine o collegio, stabilire una tassa annuale, una tassa per l’iscrizione nel registro dei praticanti e per l’iscrizione nell’albo, nonché una tassa per il rilascio di certificati e dei pareri per la liquidazione degli onorari. Il sistema normativo riconosce, in questa prospettiva, all’ente “Consiglio”, una potestà impositiva rispetto ad una prestazione che l’iscritto deve assolvere obbligatoriamente, non avendo alcune possibilità di scegliere se versare o meno la tassa (annuale e/o di iscrizione nell’albo), al pagamento della quale è condizionata la propria appartenenza dell’ordine. Siffatta “tassa” si configura come una “quota associativa” rispetto ad un ente ad appartenenza necessaria, in quanto l’iscrizione all’albo è conditio sine qua non per il rilascio legittimo esercizio delle professione”. Le Sezioni unite civili, hanno infine illustrato i due elementi che caratterizzano il tributo: la doverosità della prestazione (chi intenda esercitare una delle professioni per le quali è prevista l’iscrizione ad uno specifico albo, deve provvedere ad iscriversi sopportandone il relativo costo, tassa di iscrizione e la tassa annuale, il cui importo non è commisurato al costo del servizio reso od al valore della prestazione rogata, bensì alle spese necessarie al funzionamento dell’ente, al di fuori di un rapporto sinallagmatico con l’iscritto) e la “natura tributaria” della prestazione (il collegamento della prestazione imposta alla spesa pubblica riferita a un presupposto economicamente rilevante. Il presupposto, nella specie, è costituito dal legittimo esercizio in un determinato albo. La spesa pubblica è quella relativa alla provvista dei mezzi finanziari necessari all’ente delegato dall’ordinamento al controllo dell’albo specifico nell’esercizio della funzione pubblica di tutela dei cittadini potenziali fruitori delle prestazioni professionali degli iscritti circa la legittimazione di quest’ultimi alle predette prestazioni)